Il blocco dei checkpoint immunitari, in particolare del pathway di PD1 e dei suoi ligandi , CD274 ( PD- L1) e CD273 ( PD- L2 ), sta emergendo come una strategia promettente per la terapia del cancro.
Recentemente, il gruppo di ricerca della Johns Hopkins University School of Medicine and Sidney Kimmel Comprehensive Cancer Center a Baltimora negli Stati Uniti, ha pubblicato i risultati di un lungo periodo di follow-up del primo studio clinico riguardante l’anticorpo monoclonale Nivolumab con bersaglio PD1.
I risultati preliminari di questo studio hanno mostrato profili di sicurezza e tollerabilità favorevoli tra i 39 pazienti affetti da tumori in fase avanzata, refrattari al trattamento.
I pazienti arruolati nello studio includevano individui affetti da carcinoma del colon-retto ( CRC ), il cancro del rene o melanoma; ciascun paziente aveva sperimentato una risposta obiettiva alla terapia sperimentale.
Il lungo periodo di follow-up ha permesso di comprendere meglio i vantaggi e le insidie dei farmaci bloccanti il checkpoint del sistema immunitario nel trattamento dei tumori in fase avanzata.
Sono stati descritti i casi di tre pazienti.
Il primo paziente era un uomo di 71 anni affetto da carcinoma colorettale, inizialmente trattato con chirurgia e chemioterapia e, dopo la progressione della malattia, aveva ricevuto Nivolumab.
Una risposta parziale ( PR ) è stata osservata alla tomografia computerizzata ( TC ) dopo una sola dose di farmaco.
Il paziente ha ricevuto altri quattro trattamenti a base di Nivolumab nel corso di sei mesi, durante i quali ha ottenuto una risposta completa ( CR).
La terapia è stata interrotta e la valutazione radiologica è stata effettuata quattro anni dopo l'inizio della terapia a base di Nivolumab, dimostrando nessuna evidenza di malattia residua.
Il secondo paziente era un uomo di 76 anni affetto da carcinoma a cellule renali, variante a cellule chiare, metastatico, la cui malattia è progredita nonostante i molteplici precedenti trattamenti antitumorali sistemici.
Otto settimane dopo una singola dose di Nivolumab, alcune lesioni di questo paziente sono regredite, mentre altre si sono sviluppate, come dimostrato dalla tomografia computerizzata.
Dopo due ulteriori dosi di Nivolumab, le lesioni in crescita si sono risolte.
Il paziente non ha ricevuto ulteriore terapia antineoplastica e ha raggiunto una risposta completa che è in corso da più di 4 anni dopo l' interruzione di Nivolumab.
Il terzo paziente era una donna di 55 anni affetta da melanoma metastatico, la cui malattia era progredita nonostante la terapia standard del melanoma.
Dopo la prima dose di Nivolumab, la ristadiazione radiologica ha mostrato una risposta mista.
Nivolumab stato interrotto dopo la somministrazione di diverse dosi del farmaco, determinando una risposta parziale.
Dopo 16 mesi, la malattia è progredita, e la biopsia di una lesione sviluppata in tempi recenti ha confermato la presenza di melanoma esprimente sulla superficie cellulare PD-L1.
La paziente ha ricevuto di nuovo Nivolumab nell'ambito di un protocollo specifico per la paziente; in seguito le scansioni hanno dimostrato una dimensione ridotta e avidità di fluorodesossiglucosio ( FDG ) da parte di queste lesioni.
Una risposta parziale in corso è stata documentata 16 mesi dopo l'inizio della terapia di re-induzione.
Nel loro insieme, i dati a lungo termine di questi pazienti hanno fornito elementi importanti. In primo luogo, il blocco di PD1 può indurre risposte antitumorali durature che possono persistere anche senza terapia.
Ulteriore prova a sostegno di questa osservazione è stata fornita da Topalian e colleghi ( NEJM 2012 ), che hanno riportato i risultati di uno studio di fase I su Nivolumab che ha coinvolto circa 300 pazienti. Tra i 54 pazienti che hanno raggiunto una risposta parziale o una risposta completa, 28 risposte ( 52% ) avevano una durata di almeno 1 anno.
In secondo luogo, il successo della terapia di reinduzione in un paziente con melanoma suggerisce che, nel caso di progressione della malattia dopo la sospensione di Nivolumab, la nuova somministrazione dello stesso anticorpo anti-PD1 può reindirizzare il sistema immunitario a contrastare i processi neoplastici.
Al contrario, la crescita del tumore in seguito alla somministrazione di piccole molecole inibitrici e della chemioterapia è generalmente dovuta allo sviluppo di resistenza ai farmaci.
In terzo luogo, la valutazione clinica dei pazienti trattati con anticorpi anti-PD1 o bloccanti del checkpoint immunitario simili richiede appropriati criteri di risposta. Infatti, come osservato nella coorte di pazienti presa in esame, lo standard di valutazione dei modelli di risposta clinica, comprese le risposte miste, la malattia stabile prolungata e la pseudoprogressione ( la comparsa di malattia progressiva all'imaging radiologico convenzionale seguita da regressione del tumore ), può non essere del tutto adeguato per la valutazione di efficacia e per guidare le scelte terapeutiche.
Infine, i risultati di due recenti studi clinici che hanno valutato Nivolumab, hanno indicato che la presenza di PD-L1 sulla superficie delle cellule tumorali, o di altre cellule che risiedono nel microambiente tumorale, può essere correlata alla propensione dei pazienti a rispondere a Nivolumab.
Questo ed altri biomarcatori di risposta devono essere valutati in studi più ampi, sia durante la terapia di induzione sia nella re-induzione.
I risultati di precedenti studi di espressione genica condotti su campioni tumorali di pazienti affetti da melanoma trattati con l’anticorpo anti-CTLA4, Ipilimumab ( Yervoy ), hanno mostrato che l'espressione al basale ( cioè prima dell'inizio della terapia ) dei geni immuno-correlati aumenta la probabilità dei pazienti di beneficiare del trattamento anti-CTLA4.
In modo simile, l'espressione di PD-L1 nel microambiente tumorale può rappresentare uno stato di pre-attivazione del sistema immunitario, in attesa di piena attivazione mediante blocco della via PD1/PD-L1, con conseguenti risposte antitumorali.
Al contrario, i tumori che non hanno un background infiammatorio, e pertanto non esprimono PD-L1, possono richiedere segnali immunostimolanti esogeni per entrare in uno stato di pre-attivazione, che può essere ottenuto con la somministrazione degli anticorpi anti-PD1. Ad esempio, i pazienti con melanoma che hanno ricevuto inibitori specifici di BRAF hanno presentato livelli aumentati di cellule T CD8+ infiltranti il tumore, e hanno espresso sia gli antigeni comuni del melanoma sia PD- L1.
Ulteriori dati hanno indicato che gli effetti antitumorali degli inibitori di BRAF possono essere mediati, almeno in parte, dal sistema immunitario.
Un regime terapeutico potenzialmente sinergico contro il melanoma può coinvolgere un farmaco mirato come l’inibitore di BRAF, Vemurafenib ( Zelboraf ), e un farmaco bloccante il checkpoint immunitario come Nivolumab. ( Xagena2013 )
Lipson EJ, Oncoimmunology 2013; 2(4): e23661
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